Feticismo manifatturiero
Qualche giorno fa un bellissimo pezzo del Financial Times ha messo in guardia da un tic di tutti noi e in particolare dei politici, dei nostri ancora di più. Tendiamo ad attribuire al settore manifatturiero, inteso brutalmente come “le fabbriche che fanno le cose”, un valore assoluto e intrinseco, capace di prescindere da tutto il resto. E’ una visione distorta, che va corretta.
Quando si osserva la catena del valore dei beni manifaturieri che consumiamo oggi, si può notare quanto sia piccola la parte di valore rappresentata dai processi di fabbrica e assemblaggio. Molto di quello che pagate riflette lo stile del vestito, il disegno dell’Iphone, la precisione di assemblaggio del motoro dell’aereo, la meticolosa ricerca farmaceutica, la certificazione di qualità che ti dice che quel prodotto è veramente quello che dicono che sia.
Il lavoro fisico incorporato nel prodotto di fabbrica è un bene poco costoso in un mondo globalizzato. Ma le abilità e le capacità che trasformano quel lavoro in prodotti di straordinaria complessità e sofisticazione non lo sono. L’Iphone è un prodotto di fabbrica, ma il suo volare per l’utente è come una cristallizzazione di servizi. (l’articolo integrale è qua)
Medicinali, l’obbligo che diventa facoltà
Presto aggiungerò la categoria “poi dite che votano Grillo” in questo blog. Intanto immaginatela. Dall’ANSA
Niente obbligo per i medici di prescrivere, invece del nome del farmaco, il principio attivo, che diventa una ”facoltà ”. Lo prevedono 4 emendamenti presentati al dl sviluppo da Udc, Lega, Pdl e Pd.
Come vent’anni fa
Ieri avevo una giornata libera ed è per pura curiosità, giornalistica e personale, che in mattinata mi sono fatto due passi in centro a Milano, a dare un’occhiata alle manifestazioni. Da quel che sono riuscito a capire erano almeno tre: due tronconi di quella degli studenti e una “ufficiale” della Cgil.
Piazza Duomo
Prima tappa, piazza Duomo. Sono arrivato che si era quasi tutto concluso, si era al comizio finale. Una sequela di banalità sulla crisi, sul fatto che non vogliamo l’austerità, no a Marchionne e così via. Sotto il palco ci saranno state un centinaio di persone, forse duecento, intoro altra gente distratta che chiacchierava in gruppetti, tenendo in mano morbidamente bandiere o striscioni semiarrotolati. Molti capelli bianchi o vicini ad esserlo, studenti sparsi su gradinate e appoggi vari a chiacchierare tra loro. Tutto si chiude con l’Internazionale, cantano in pochi.
Gli studenti
Seconda tappa, corso Magenta e varie. Il grosso del corteo era da un’altra parte, là dove ci sono state cariche e scontri. Lungo via De Amicis manifesti, scritte con la vernice, qualche uovo (o cachi?) lanciato contro i muri. All’approdo in piazza della Resistenza Dal megafono si parla di università e scuola pubblica, si usa l’espressione “Rigor Montis” per indicare il presidente del Consiglio (Grillo, in qualche modo, passa), alla fine cantano tutti “chi non salta un fascista è” e cose simili.
Tutto uguale
Vent’anni fa, quando andavo a scuola, questo mondo l’ho vissuto: ho sfilato, ho preso qualche manganellata, respirato lacrimogeni, preso botte dai fascisti. Ieri ho avuto la netta impressione che tutto fosse cristallizzato. Gli slogan, le parole, persino la musica diffusa dal camion, le facce, i vestiti, l’odore delle canne: tutto uguale a quando in piazza ci scendevo io. Ovvio, cambia la prospettiva, che a noi pareva di avere più ampia di quanto non l’abbiano questi ragazzi, anche se i fatti hanno dato torto alle aspettative di molti di noi. Per il resto tutto suona come lo stanco ripetersi di clichè di piazza, il quale comporta una risposta altrettanto scontata: il non ascolto. In fondo perché un Governo o una società civile dovrebbe rispondere a chi si limita a recitare slogan vecchi di quarant’anni?
Dunque, mentre i giornali continuano a dividersi secondo uno schema di massima che prevede “sbirro contro compagni” / “i nostri ragazzi assaltati dai black bloc”, la riflessione più interessante mi sembra quella di Francesco Costa. Il titolo riassume quello che penso: il format della piazza va riscritto.
Ad un passo dal negro
Ho letto ieri questo post di Beppe Grillo nel quale si scaglia contro il politically correct. Dice tra l’altro
Il Sistema, nelle sue varie e molteplici forme, diverse, ma protette dal medesimo scudo di perbenismo, da una vernice di merda decennale che non puzza, ma soltanto “odora”, usa il politically correct per mozzare le lingue, etichettare, isolare chiunque ritenga altro a sé.
Ho pensato subito che in questo ragionamento c’è qualcosa che mi disturba profondamente. Di base sono uno favorevole al parlar chiaro e – in caso di cazzeggio – mi piace l’umorismo politicamente scorretto. Me ne vergogno un po’, sono come i bambini che ridono quando parlano di cacca e puzzette, ma tant’è. Però il discorso politico è diverso.
Così mi son ricordato di come fosse stato liberatorio, per certa gente, l’approdo della Lega sulla scena pubblica, lo sdoganamento della parola terrone, i cappi in Parlamento (anche quello è linguaggio). Liberatorio perchè rispondeva a pulsioni represse da tempo, a idee taciute a lungo proprio in nome del politically correct, ma che trovavano sfogo nell’umorismo da bar o da strada, nella chiacchiera in famiglia o con gli amici. Erano cose confinate in un ambito privato e anche per questo destinate a perdersi, con l’evolversi delle generazioni.
La Lega, alcuni pezzi della destra e del cosiddetto centrosinistra (penso all’Italia dei Valori) hanno cavalcato il politicamente scorretto, proiettando il presunto discorso politico in un ambito privato. Vista così, la cosa sembrerebbe aver avuto anche il merito di aver riavvicinato i cittadini alla politica. Ma questo discorso è per chi della politica ha un’idea ristretta.
Nella mia visione (che, capisco, in questi ultimi anni ha avuto scarsa cittadinanza) chi entra nelle istituzioni, specie con cariche elettive, dovrebbe rappresentare la punta avanzata del Paese. Il politico vero, per come la vedo, è uno che sa stare vicino agli elettori, ma sa anche e soprattutto tracciare una strada, disegnare un’idea di società che, secondo la sua visione, è migliore di quella che attualmente c’è. In questo disegno, il linguaggio non può non rientrare.
Il governo Monti ha molti demeriti, ma è stato eccelso, specie nella figura del presidente del Consiglio, nel cercare di modificare proprio questo aspetto. Tono raramente enfatico, ironia tagliente preferita allo sberleffo, mai un’alzata di voce o uno scatto di rabbia, ai quali troppo spesso ci eravamo abituati. Non è politically correct, è il modo giusto.
Sto divagando, però. Il politically correct serve a tenere a bada gli istinti più bassi, che pure pervadono pezzi della società, e a tenere fuori dal discorso pubblico tutta la violenza verbale che faticosamente e progressivamente siamo riusciti, spesso senza successo, ad escludere in questi anni. La violenza verbale – è bene ricordarlo – non è solamente l’insulto all’avversario politico o il libero utilizzo della parola “merda” come nel brano citato qua sopra, ma è anche dire in pubblico “negro” invece che “di colore”, “frocio” o “checca” invece di “omosessuale” o postare un commento in un blog molto seguito nel quale di Gad Lerner si scrive “non mi fiderei mai di uno col naso adunco”.
Ecco, quest’ultimo esempio dimostra che è già successo e i peggiori istinti si stanno già liberando. Il passo dal politicamente scorretto nel linguaggio a quello nei fatti – lo ricordo a chi non avesse studiato accuratamente la storia del 900 – tende ad essere piuttosto breve.
Donna! Tu cucinare, io guidare macchina
Scusate, vi parrà che in questo periodo sia fissato con questi temi, ma li reputo davvero importanti. La condizione delle donne in questo Paese non cambierà davvero finchè, leggi o non leggi, non prenderemo coscienza di tutti gli elementi culturali che, fin da quando siamo piccoli, ci orientano a definire le differenze di ruolo, differenze che di loro, ossia al netto del cosiddetto contesto, non avrebbero senso.
Chiunque abbia figli sta ricevendo a casa, già in questo periodo, i cataloghi di aziende che producono o distribuiscono giocattoli. Ecco, non lasciateli in mano ai vostri figli e alle vostre figlie. Non tanto e non solo perchè vi sommergeranno di richieste, ma perchè quelle pagine sono piene di stereotipi destinati a rimanere impressi nelle loro menti. Mi taccio. Parola alle foto
Palazzo Chigi precisa: la patrimoniale l’abbiamo già fatta
Palazzo Chigi precisa: con le parole di questa mattina Monti non ha aperto alla possibilità di una patrimoniale. Ma il comunicato stampa si conclude così
…Non essendo perciò realizzabile una tassazione generalizzata del patrimonio, il Governo nel dicembre 2011 è intervenuto, con l’approvazione di tutti i partiti della maggioranza, su varie componenti della ricchezza patrimoniale separatamente, con un risultato effettivo in qualche modo paragonabile.
Insomma: la patrimoniale l’abbiamo già fatta. E nemmeno ve ne siete accorti.
Prima di gridare allo scandalo sui fondi all’Emilia
Cinque Paesi, Olanda, Finlandia, Germania, Svezia e Gran Bretagna si sono opposti, questa la versione che si sta diffondendo in queste ore, a stanziare 670 milioni di fondi per il terremoto in Emilia. Le notizie vanno sempre lette con attenzione, quindi consiglio il pezzo del Sole 24 Ore.
Riassumo: i bilanci 2012 e 2013 dell’Unione Europea va rettificato, non solo per i soldi all’Emilia ma anche per altre voci di spesa. Quello 2012 va rettificato per 9 miliardi: in sostanza Bruxelles ha speso più di quello che aveva preventivato e i cinque Paesi hanno molte perplessità. Non è questione di Emilia, ma di trattativa politica, che presumibilmente andrà avanti fino a tarda notte.
Suggerisco di aspettare. Poi, magari domani, avremo il tempo di gridare allo scandalo.