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Spotify, i miei figli e l’informazione


Se ne parlava qualche giorno fa col mio amico Gabriele Isman, grande appassionato di musica come me e dotato di una straordinaria collezione di dischi.
I miei figli sono felici utilizzatori dell’abbonamento Spotify family che ho deciso di sottoscrivere e la loro modalità di ascolto, per il mezzo del quale dispongono e per la vastità dell’offerta della quale possono godere, è radicalmente diversa da quella che avevo io alla loro età.
Quando eravamo ragazzini compravamo un CD ogni tanto (io anche qualche vinile) e abbiamo per breve tempo sfruttato il buco legislativo che ci consentiva di copiare su cassetta. Le conseguenze erano che:
1) Sfruttavamo l’intero disco fino in fondo e lo riascoltavamo spesso
2) Non c’era ascolto casuale, al di fuori di quello radiofonico
3) Ogni ascolto era pensato perché il costo dell’acquisto o dell’affitto (i romani della mia generazione ricorderanno quel paradiso che era Rentùn) non consentiva errori.
Per i miei ragazzi funziona così.
1) L’ascolto casuale è la normalità
2) La radio e il passaparola tra amici non sono più i mezzi fondamentali di scoperta della nuova musica
3) Il passaparola può essere eventualmente sostituito da qualche forma di viralità, ma la regola sono gli algoritmi di Youtube e di Spotify
4) La base è la singola canzone e l’intero album è diventato un orpello quasi inutile.
“Poverini”, mi diceva Gabriele (che non ha figli) durante la nostra chiacchierata. In questi giorni di riposo forzato mi sono messo in testa di riordinare le playlist e i brani di Spotify e, sorpresa, mi sono accorto che il mio ascolto è diventato molto simile al loro, fatta eccezione per pochi artisti (tra i recenti i Muse, Barns Courtney, Arctic Monkeys, grandson e alcuni tra i vecchi come Pearl Jam). Ho salvato una marea di brani singoli e pochissimi album, spesso basandomi sulle sonorità che mi piacevano al momento.
Per quanto sentire musica in sé abbia molto a che fare con l’emozione, questo nuovo strumento ha spinto in maniera decisa sulla parte emotiva del mio ascolto. Dal lato pratico questo rende virtualmente impossibile il riordino di playlist e brani; dal lato meno pratico noto che si è ridotta la parte razionale del mio percorso – e quindi la sua coerenza. E’ come se dai miei occhi e dalle mie orecchie fosse stato sottratto un disegno complessivo.
Dal punto di vista strettamente musicale questo potrebbe portare alla morte definitiva (o quantomeno all’irrilevanza) alcune forme artistiche che nei decenni abbiamo imparato ad apprezzare, come i concept album: cosa ne sarebbe stato della quasi totalità della produzione dei Pink Floyd o degli Who nell’era dello streaming? Ha ancora senso produrre un disco come l’ultimo degli Arctic Monkeys, che conoscevamo come capostipite di un certo alt rock e ritroviamo, in una sorta di sfida intellettuale, a realizzare un album quasi da crooner? La coerenza interna ad un album ha ancora senso? A naso son domande che non trovano ancora risposta e che per il momento lasciamo là, anche perché mi interessa allargare il discorso.
In realtà questa modalità di consumo culturale ha molto a che fare con quello che siamo diventati. La scorsa settimana ho visto una puntata – guardacaso dedicata proprio alla musica –  di “In poche parole”, una serie prodotta da Netflix e realizzata da Vox. Sono venti minuti di documentario nei quali non si pretende di spiegare in modo tradizionale cosa è la musica e cosa rappresenta, ma si pescano storie e informazioni sparse dando minime informazioni di contesto: la DJ che dopo un’operazione al cervello ha perso completamente il senso della musica; il pappagallo e la foca che sanno seguire il ritmo di una canzone, mentre i primati non ci riescono; i malati di Parkinson che con la musica riescono a muoversi; la donna che ha subito danni al cervello e che torna a parlare grazie alle canzoni; due esperti che ci spiegano rapidamente il ruolo della musica nella cultura umana; qualche accenno al ritmo e alle ottave. Tutto molto simile agli strani percorsi che facciamo in rete, dove di link in link saltiamo da una parte all’altra.
E’ un bene o un male? Non lo so. E’ un Cambiamento (la C maiuscola è voluta) straordinario del modo di formarsi e informarsi: dovremmo astenerci dal giudicare, perché è nei fatti e non riguarda solamente i nostri figli. Stiamo diventando così anche noi.
In tutte le teorie del consumo, recenti e meno recenti, si sottolinea la necessità di disegnare per l’utente un percorso facile, razionale, che si adatti alle sue esigenze, ma nel quale non vada perduta la coerenza del nostro prodotto. La mia sensazione è che il mondo dell’informazione, in questi anni convulsi di grande crisi di ricavi e di ribaltamenti di prospettive, non abbia disegnato percorsi su cui indirizzare i propri consumatori (lettori, ascoltatori etc), ma li abbia inseguiti lungo quelle che supponeva essere le strade che loro stavano battendo, perdendo la propria coerenza (il giornalismo è anche e soprattutto una missione civile) in favore di guadagni che sono arrivati solo di rado o per nulla. Una scelta fatua, che ha impoverito il dibattito pubblico e fatto perdere credibilità agli attori del settore, giornalisti o editori che fossero.
Parlo per linee generali, sapendo che ci sono splendide eccezioni sia da questo lato dell’Oceano che dall’altro e conoscendo molte persone che, all’interno di testate che hanno scelto la via più facile, hanno rappresentato la voce contraria. Ma quella che è mancata o c’è stata solo in parte è una riflessione sulle nuove modalità di consumo dell’informazione, su come sfruttarle per farsi leggere ANCHE su argomenti apparentemente noiosi, su come disegnare percorsi facili (che non vuol dire stupidi) perché i nostri utenti si informino, su come fornir loro – in questo mare magnum – un disegno generale che non risponda ad un’agenda politica o culturale e che abbia come unico scopo l’informazione.

La rete e la perdita della memoria


La copertina di Time, questa settimana, è dedicata alle “dieci idee che stanno cambiando la tua vita” e tra queste viene inclusa “your head is in the cloud”. Viene riportato il resoconto di una ricerca condotta un anno fa alla Columbia University e della quale si è parlato abbastanza diffusamente, dalla quale sono emerse alcune cose interessanti. La prima è che quando non conosciamo una risposta ad una domanda, la prima cosa alla quale pensiamo è dove trovare una connessione internet per cercarla. La seconda: non memorizziamo (o memorizziamo con maggiore difficoltà) le informazioni che siamo certi di poter reperire in rete. Memorizziamo, invece, il percorso attraverso il quale reperirla. Insomma, Google sta rovinando la nostra memoria?

La domanda instilla terrore. Di certo andiamo verso un pianeta sempre connesso e arriverà il momento nel quale il memorizzare alcuni tipi di informazione sarà come andare a cavallo, mentre il mondo viaggia in auto.

La domanda da porsi potrebbe essere un’altra: quale versione dei fatti troveremo? Sarà quella giusta, quella corrispondente o il più vicina possibile alla verità? Saremo in grado di discernere? Sapremo pescare il percorso giusto, scavare tra i risultati nella maniera più efficace? E ancora: ce la sentiamo di affidare a tre motori di ricerca o a un’enciclopedia on line ampiamente manipolabile il compito di essere tutti i giga che mancano al nostro cervello?

E Google saprà rispondere a tutte queste domande?

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