Salvini, la citofonata e quello che dovrebbero fare i giornalisti


Ok, iniziamo da un paio di punti, altrimenti chissà quale versione passa.

1) Penso che la citofonata di Salvini sia una cosa orrenda: oltre ad aver commesso un atto illegale e ad aver esposto al pubblico una famiglia senza alcuna prova, lo ha fatto confidando nelle parole di una persona resa fragile da un grande dolore.

2) Penso anche che tutta la gestione mediatica della vicenda sia stata sbagliata. Mi ci metto anche io: pur avendo stigmatizzato subito, ci abbiamo giocato sopra.

Tutto ciò premesso, oggi su Twitter si è scatenato un mezzo putiferio per questa cosa qua

 

 

Il tema, quindi, preciso ulteriormente, non è il cosa si sia fatto di quel materiale una volta che è approdato nelle redazioni, ma il come avrebbe dovuto agire il gruppo di persone alle quali era stato assegnato il compito di seguire la giornata del leader leghista.

Primo punto: come mi fanno notare da Valigia Blu, non avrebbero dovuto ridacchiare

Sul secondo punto, ossia quali domande fare dopo una sceneggiata di quel genere, si concentrano alcuni interrogativi. La maggior parte delle risposte che ho ricevuto (319, per lo più indignate con me) dicono, con toni più o meno sfumati, esattamente questa cosa

Per quanto ampiamente maggioritarie, non sono le sole opinioni.

Ho un’idea abbastanza precisa e piuttosto dura su come molte radio, molte televisioni e molti siti hanno gestito quel materiale una volta che ce l’hanno avuto in mano: male. E vi raccomando di prendere queste parole anche come un’autocritica.

Su come invece abbiano agito quelli che erano là e sul gettargli la croce addosso, ecco, ho molti dubbi.

Dalla scrivania, fuori contesto, vedendo e rivedendo quel video è molto facile dire che cosa avrebbe fatto ciascuno di noi, ma quando sei sul campo le cose cambiano un po’ e ci sono parecchie sfumature.

Senza assolverli, ma cercando le attenuanti, mi vengono in mente un po’ di cose.

– Le agende dei leader politici in campagna elettorale sono fittissime. Quella di Salvini, visto che è di lui che parliamo, prevede cose come 8:30 Piacenza, 10:00 Parma, 12:00 Modena e così via fino a sera. Se dalla redazione ti dicono che devi seguire la giornata di Salvini, tu saprai che lui viaggerà scortato e con autista, mentre te, se ti va bene e lavori in TV viaggi con la troupe, altrimenti ti fai mezza Emilia Romagna da solo guidando in macchina, inseguendo qualcuno che per il 90% del tempo dirà le stesse cose che ha detto un’ora e mezza prima, ma potrebbe infilare da qualche parte una dichiarazione importante che ti sfugge. Possiamo criticare questo modo di mandare in giro la gente per fare un lavoro di poco valore, ma è quello che avviene. Ti fai tutta una giornata così, con temperature tra -1 e 8 gradi, poi arriva la sera, non vedi l’ora che tutto questo finisca perché anche tu ti rendi conto che non valorizza particolarmente la tua professionalità (ma che ci devi fare, il lavoro è anche questo) e quello ti piazza la citofonata che non ti aspetti. Un po’ di shock, un po’ di assenza di lucidità e il gioco è fatto.

– E ancora. C’era la possibilità di fare domande? O si è semplicemente allontanato con la scorta, lasciando là il colpaccio mediatico e andandosene via talmente veloce da sfruttare bene l’attimo di disorientamento? Sinceramente non lo so.

– Alcuni hanno scritto: i giornalisti avrebbero dovuto andarsene. Ma chi c’era là a seguirlo? In queste occasioni, proprio perché non è un lavoro molto piacevole, capita che le redazioni mandino dei collaboratori. E i telegiornali non di rado mandano solo un cameraman e un fonico per raccogliere immagini e audio. Ai secondi della parte strettamente giornalistica importa poco, ai primi importa che gli paghino il pezzo o la giornata e l’ultima cosa che farebbero è andarsene da dove il caporedattore, il caposervizio o il direttore gli hanno ordinato di stare. Anche qua, non conoscendo i dettagli, non mi permetto di giudicare.

Insomma, mi pare che li stiamo valutando come facevamo con gli arbitri prima dell’arrivo del Var: noi e i commentatori, in poltrona, con sei telecamere e moviola ultrarallentata sapevamo perfettamente che era rigore. Ma l’arbitro deve giudicare un’azione a velocità reale e può vederla una sola volta. Certo, è il suo mestiere, ma l’errore è dietro l’angolo.

Nota:

Se tutto questo servirà ad aprire un dibattito non tanto sul giornalismo in Italia (che è insieme molto meglio e molto peggio di come lo si dipinge, ossia ha picchi di eccellenza, sacche di resistenza al calo di qualità, ma anche alcuni esempi tra i peggiori del mondo occidentale), quanto sullo specifico del giornalismo politico e di come spesso sia ancora agganciato al “dichiarazionificio”, ben venga.

Postilla:

Qua Michele Boldrin apre un tema enorme.

Il tema è quello eterno del giornalismo, ossia cosa è fit to be published? Se entrassi in un laboratorio nel quale si raffina Cocaina e riuscissi a fare delle riprese, dovrei avere remore a trasmettere la cosa, adeguatamente contestualizzata? E se mi imbattessi in casi di caporalato, come è avvenuto nelle tante inchieste realizzate in mezzo ai braccianti, in un contesto di lavoro nero, violenze e riduzione in schiavitù? Per dire: tecnicamente Snowden è nell’illegalità. Il criterio, credo, non può essere la conformità alle leggi dell’azione alla quale assisto o non solo quello. Il criterio (torno a bomba) è il modo nel quale tratti quel materiale, come lo presenti, come lo approfondisci, come ci lavori. Tutti elementi che nelle prime 12-24 ore della citofonata sono quasi completamente mancati (con lodevoli eccezioni).

Ciao, amici garantisti, siamo finiti


Premetto che non c’ero quel giorno davanti all’hotel Raphael a lanciare monetine a Craxi, anche se quel giorno sembrava che ci fossero tutti e che poi tutti (o quasi) quelli che c’erano si siano pentiti. Ci sono andato, ma credo di esserci andato qualche giorno dopo: erano venuti alcuni tizi dal Mamiani e hanno detto “oh, andiamo a far casino”, così ci siamo mossi in corteo e abbiamo sventolato un po’ i portafogli sotto l’albergo.

Premetto che poi mi son fatto trascinare in questo gorgo. Assistevamo ai servizi sui processi nei telegiornali, vedevamo l’imputato Cusani e le arringhe dell’avvocato Spazzali, ma soprattutto la teatralità di Di Pietro che ci pareva il salvatore della patria e ci siamo iscritti in massa a giurisprudenza, molti (come me) senza farsene nulla. Mi piacevano gli avvocati, ma ero dalla parte dei magistrati, trovavo fico il tintinnar di manette, specie quando risuonava per i potenti. Ci eravamo persi il ’68, ne vivevamo i benefici e le scorie, e quella ci pareva la nostra rivoluzione, anche se non c’entravamo nulla. Non era una roba dal basso, quella.

Premetto e ammetto che quando è arrivato sulla scena Berlusconi non avevo capito bene la portata della cosa e i suoi attacchi ai magistrati mi parevano solo una cosa sguaiata. Lo erano, ma non erano solo questo. Osservavo con ammirazione il modo nel quale Giulio Andreotti (!) affrontava i processi e per anni ripetei la sua definizione dei magistrati, “sacerdoti laici”, e li sacralizzai, spogliandoli della loro umanità e della loro capacità di sbagliare. Mi sembrava, tra l’altro, che Berlusconi, con tutti quei guai giudiziari, con quella massa di sospetti addosso, fosse veramente “unfit to lead Italy”. Poi probabilmente lo era, ma non tanto e non solo per quei motivi.

Premetto che ho anche provato a leggere qualche libro di Travaglio, vincendo la noia per l’enormità di carte processuali ivi riportate ed esibendone fieramente i dorsi nella mia libreria. Sono arrivato a pensare – un po’ come tutto il Paese, ancora oggi – che i cronisti di giudiziaria siano una delle massime espressioni del giornalismo. Ce ne sono di ottimi e molto scrupolosi, ma ovviamente è pieno anche di passacarte dei pubblici ministeri.

Premetto quindi che sono stato un vero giustizialista e credo di esserlo stato per un misto di passione civile mal diretta e scarsa coscienza.

___________

Poi è scattato qualcosa. Non un’illuminazione, più un lungo processo di assestamento delle mie idee in materia di giustizia, di innocenza, di colpevolezza. Ho aperto gli occhi su quello che davvero oggi mi pare un rapporto malato tra magistratura, media e opinione pubblica, che porta alla condanna prima del processo per chi è solo indagato e a ritenere che il cancro del sistema si annidi in istituti a garanzia dell’imputato come la prescrizione o a garanzia del condannato come una cella decente. Mi sono reso conto che a questo hanno contribuito molto elementi: pubblici ministeri con grande voglia di apparire, giornalisti con grande voglia di spulciare i pettegolezzi tra le carte, opinione pubblica con grande voglia di trovare un colpevole, quale che sia, anche solo per scaricarsi la coscienza.

Di analisi su questo ne troverete a bizzeffe, migliori delle mie. Non dico nulla di nuovo, posso solo aggiungere quello che provo io quando viene arrestato qualcuno: mi chiedo se l’arresto lo meritasse davvero, se ci fossero motivi davvero fondati per portarlo in una cella, se sia giusto che il suo nome, la sua foto e le ipotesi dei magistrati sul suo conto vengano rese pubbliche, a volte in prima serata, prima che abbia qualche possibilità di difendersi. Anzi, se sia giusto che tutto questo venga reso pubblico tout court, almeno fino a condanna avvenuta.

Penso a quello che subisce nell’ambito di tutte le sue relazioni sociali, nella sua città, nel suo quartiere, nel suo palazzo, nella sua famiglia, ai dubbi che si instillano persino nella mente di una moglie, di un marito, di un figlio o una figlia: a me sembrava che fosse davvero quello che diceva di essere, ma c’è quella telefonata, quel frammento di intercettazione, quella dichiarazione del Pm, del carabiniere, del poliziotto che mi lasciano perplesso. Il dubbio, il sospetto. Una volta che ti entrano in testa è difficile cacciarli. E allora penso alle amicizie che si rompono, ai matrimoni in pezzi, ai rapporti con i figli che cambiano radicalmente o in certi casi vengono devastati.

E’ tutto profondamente ingiusto, soprattutto perché non è l’arrestato a dover provare la sua innocenza, ma il magistrato a dover provare la sua colpevolezza, anche se ce ne dimentichiamo spesso: basta l’sms, la telefonata, la mezza intercettazione, magari trascritta male per colpa o per dolo da un carabiniere incapace o infedele. E poi questo oscuro scavare nella vita delle persone, nei cellulari, nei computer per tirar fuori storie d’amore, fidanzamenti, amanti, prostitute o anche solo materiale da masturbazione. Va bene anche quello: nel caso sfuggisse la condanna penale, c’è sempre quella morale.

Insomma, stringi stringi il concetto è il seguente: non voglio dirvi nemmeno che lo Stato deve dare delle garanzie anche al colpevole, anche se è un’affermazione che condivido; vi dico che deve dare delle garanzie all’innocente fino a prova contraria, perché se DAVVERO è innocente la sua vita è comunque distrutta. E il caso Tortora, del quale abbiamo parlato all’infinito, è esemplare ma poco rappresentativo di quelle migliaia (sì, migliaia!) di persone qualsiasi che hanno perso la faccia e un pezzo della propria vita dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato.

__________

Il punto l’ho chiarito. Ora fatemi dire, anche se già lo sapevate, che noi garantisti abbiamo perso. Ve lo ripeto: ABBIAMO PERSO. I manettari hanno vinto tra la gente e in politica. Per i garantisti veri, quelli non pelosi, non c’è più alcuno spazio di azione, eccetto il far sentire la propria sempre più flebile voce come una specie di dolorosa testimonianza in punto di morte. E saranno comunque accusati di garantismo peloso. Ho come l’idea che questa sconfitta sia definitiva.

Non è solo la cultura politica, che pure ha subito evidenti arretramenti e che continua a vedere nelle manette, nella gogna la salvezza della Repubblica. Una cultura che ha nei 5 Stelle la sua più alta manifestazione, che sta tornando a permeare la Sinistra e il centrosinistra, che è connaturato alle caratteristiche della Lega, specie quella a trazione salviniana.

Mi vien da pensare, invece, che la morte del garantismo sia un pezzo del racconto di quest’epoca e della nuova cultura di massa, quella che si esprime in alcuni comportamenti da social. Il giudizio sommario è una delle grandi chiavi di lettura di questo momento storico. Una che pubblica la sua foto in tanga è una troia, chi sbaglia un congiuntivo è un cretino. Si scava nei profili Twitter e Facebook di chi ha fatto una stupidaggine, si fa uno screenshot e lo si espone al pubblico ludibrio; si blasta. Si infliggono ferite profonde, si impicca sulla pubblica piazza, si sbava dalla bocca.

Abbiamo perso.

Milano e il rischio di un traguardo raggiunto


Reduce da una cena con romani deportati a Milano, l’ennesima volta nella quale mi ritrovo dal lato di quelli che al capoluogo lombardo di sono adattati talmente bene da non avere alcuna intenzione di muoversi, mi risveglio con la classifica del Sole 24 Ore che mette la città al vertice per la qualità della vita. Con tutti i suoi difetti, penso che sia un primo posto meritato. Sarà pur vero che a Bolzano o Aosta si respira un’aria migliore e che ci sono posti al nido per tutti o quasi, ma è vero anche che una provincia deve caratterizzarsi per la sua capacità di essere un polo imprenditoriale e lavorativo e per il saper offrire un buon numero di opportunità culturali, intellettuali. sportive e di vita. E poi, ne converrete, tutto si gioca sull’equilibrio tra la dimensione e l’amministrazione: far funzionare il trasporto pubblico a Belluno non è la stessa cosa che farlo funzionare a Milano e altrettanto vale per la raccolta dei rifiuti.
 
Traguardo raggiunto. E ora? Domanda enorme e complessa. 
 
La mia sensazione è che in questi anni l’hype di Milano si sia nutrito anche di un confronto impietoso con Roma, il confronto tra una città in grande ascesa che si comporta come una specie di repubblica indipendente e una città declinante, in decadenza, che non può far altro che soffrire il peso di una politica onnipresente e di una cittadinanza talmente rassegnata da aver dimenticato, in gran parte delle sue componenti, un bel pezzo del suo senso civico.
 
Ma non è con Roma che può e deve confrontarsi Milano. Roma è eterna per definizione, per definizione splendida, sterminata, inarrivabile e può permettersi per questo di cadere, di affondare, persino di dar l’impressione di non sapere come rialzarsi. Ma – e spogliatevi di tutti i pregiudizi, se ne avete – è sempre Roma. La capitale gioca in un’altra categoria, che non vuol dire “migliore” o “peggiore”, ma semplicemente diversa. Confrontereste, per dire, Usain Bolt con Roger Federer? 
 
Dunque la si smetta con questo derby demenziale. Milano gioca una partita diversa, più grande, una partita europea e – a volere essere estremamente ambiziosi – mondiale, partita nella quale la competizione è feroce e va ben oltre il saper tenere pulita una strada, il saper trattare i rifiuti o l’avere un trasporto pubblico che funziona. E’ una partita che si gioca, tra le altre cose, sull’attrazione dei talenti, sull’apertura al nuovo e al cambiamento, sulla capacità di essere avanguardia culturale e intellettuale. Le premesse ci sono tutte, basta che non ci si sieda ad osservare compiaciuti la presunta vittoria su Roma come se fosse il massimo traguardo raggiungibile. 

Ne ho le scatole piene


Sia chiaro che NON è una presa di posizione politica e che quello che sto per dire non inciderà minimamente sul mio lavoro di giornalista, che così come un medico o un avvocato ha un codice deontologico ufficiale o autoimposto da rispettare.
Fatta la premessa, vi dirò che ne ho le scatole piene.
Sono un contribuente da 22 anni su 42 di vita. Mi è capitato in gioventù di fare del nero (molto poco) e molto più spesso di pagare persino più del dovuto, rinunciando a qualche deduzione o detrazione che mi avrebbero fatto intascare poco ma mi avrebbero fatto perdere molto tempo. Mi è capitato anche di sfruttare le pieghe delle regole fiscali per pagare meno tasse, ma sempre nell’ambito di quello che è consentito e lecito.
In una discreta condizione reddituale e pagando un’assicurazione sanitaria, quella dei giornalisti, che mi stacca una notevole cifra mensile, ho versato imposte allo Stato finanziando in parte servizi dei quali ho usufruito, in parte finanziando servizi dei quali avrebbero usufruito persone meno fortunate di me, come appunto quelli sanitari.
Da bravo cittadino so di aver pagato, insieme ad un welfare state malmesso e clientelare, anche il cosiddetto “costo della democrazia”, per quanto sapessi che parte di questo denaro finiva per riempire le tasche di amministrazioni che definire inefficienti è decisamente eufemistico.
Poi ho iniziato a cambiare fornitori, per evitare di cadere in tentazione quando qualcuno ti chiede “faccio fattura?”. Negli ultimi tre anni ho girato tre barbieri: il primo non faceva mai uno scontrino, il secondo, dopo una decina di pagamenti regolari, una volta entrato in confidenza mi ha proposto lo sconticino per il nero. Ne ho trovato uno col quale pago di più, ma saldo solo con carta di credito. Non ho più chiamato l’elettricista che faceva tutto in contanti, privandomi peraltro di un buon professionista, e rinuncio ad un buon caffè e a un buon cornetto se non battono lo scontrino. Se posso rinuncio ai tassisti che mi dicono di non avere il bancomat, sapendo perfettamente che il più delle volte non è vero.
Ho ricevuto qualche cartella, il più delle volte per multe che mi ero perso e che, nel delirio di un’amministrazione malfunzionante, non sapevo più come recuperare. Ho pagato regolarmente.
Dal mio osservatorio professionale, dall’attenzione che ho nei confronti di quello che succede nel mondo reale, so perfettamente che un’operazione di condono può avere senso: può far rientrare in circolo denaro nascosto, può aiutare qualche famiglia in difficoltà (che però ha ampie possibilità di rateizzare), può far entrare soldi (ma mai abbastanza) in quell’idrovora che è lo Stato.
Ma c’è una questione di principio e di giustizia, nei miei confronti e nei confronti di quei milioni di cittadini che ogni mese, nel loro cedolino, guardano la differenza tra lordo e netto e vanno in bestia.
Quindi ne ho le scatole piene, proprio come loro.

Spotify, i miei figli e l’informazione


Se ne parlava qualche giorno fa col mio amico Gabriele Isman, grande appassionato di musica come me e dotato di una straordinaria collezione di dischi.
I miei figli sono felici utilizzatori dell’abbonamento Spotify family che ho deciso di sottoscrivere e la loro modalità di ascolto, per il mezzo del quale dispongono e per la vastità dell’offerta della quale possono godere, è radicalmente diversa da quella che avevo io alla loro età.
Quando eravamo ragazzini compravamo un CD ogni tanto (io anche qualche vinile) e abbiamo per breve tempo sfruttato il buco legislativo che ci consentiva di copiare su cassetta. Le conseguenze erano che:
1) Sfruttavamo l’intero disco fino in fondo e lo riascoltavamo spesso
2) Non c’era ascolto casuale, al di fuori di quello radiofonico
3) Ogni ascolto era pensato perché il costo dell’acquisto o dell’affitto (i romani della mia generazione ricorderanno quel paradiso che era Rentùn) non consentiva errori.
Per i miei ragazzi funziona così.
1) L’ascolto casuale è la normalità
2) La radio e il passaparola tra amici non sono più i mezzi fondamentali di scoperta della nuova musica
3) Il passaparola può essere eventualmente sostituito da qualche forma di viralità, ma la regola sono gli algoritmi di Youtube e di Spotify
4) La base è la singola canzone e l’intero album è diventato un orpello quasi inutile.
“Poverini”, mi diceva Gabriele (che non ha figli) durante la nostra chiacchierata. In questi giorni di riposo forzato mi sono messo in testa di riordinare le playlist e i brani di Spotify e, sorpresa, mi sono accorto che il mio ascolto è diventato molto simile al loro, fatta eccezione per pochi artisti (tra i recenti i Muse, Barns Courtney, Arctic Monkeys, grandson e alcuni tra i vecchi come Pearl Jam). Ho salvato una marea di brani singoli e pochissimi album, spesso basandomi sulle sonorità che mi piacevano al momento.
Per quanto sentire musica in sé abbia molto a che fare con l’emozione, questo nuovo strumento ha spinto in maniera decisa sulla parte emotiva del mio ascolto. Dal lato pratico questo rende virtualmente impossibile il riordino di playlist e brani; dal lato meno pratico noto che si è ridotta la parte razionale del mio percorso – e quindi la sua coerenza. E’ come se dai miei occhi e dalle mie orecchie fosse stato sottratto un disegno complessivo.
Dal punto di vista strettamente musicale questo potrebbe portare alla morte definitiva (o quantomeno all’irrilevanza) alcune forme artistiche che nei decenni abbiamo imparato ad apprezzare, come i concept album: cosa ne sarebbe stato della quasi totalità della produzione dei Pink Floyd o degli Who nell’era dello streaming? Ha ancora senso produrre un disco come l’ultimo degli Arctic Monkeys, che conoscevamo come capostipite di un certo alt rock e ritroviamo, in una sorta di sfida intellettuale, a realizzare un album quasi da crooner? La coerenza interna ad un album ha ancora senso? A naso son domande che non trovano ancora risposta e che per il momento lasciamo là, anche perché mi interessa allargare il discorso.
In realtà questa modalità di consumo culturale ha molto a che fare con quello che siamo diventati. La scorsa settimana ho visto una puntata – guardacaso dedicata proprio alla musica –  di “In poche parole”, una serie prodotta da Netflix e realizzata da Vox. Sono venti minuti di documentario nei quali non si pretende di spiegare in modo tradizionale cosa è la musica e cosa rappresenta, ma si pescano storie e informazioni sparse dando minime informazioni di contesto: la DJ che dopo un’operazione al cervello ha perso completamente il senso della musica; il pappagallo e la foca che sanno seguire il ritmo di una canzone, mentre i primati non ci riescono; i malati di Parkinson che con la musica riescono a muoversi; la donna che ha subito danni al cervello e che torna a parlare grazie alle canzoni; due esperti che ci spiegano rapidamente il ruolo della musica nella cultura umana; qualche accenno al ritmo e alle ottave. Tutto molto simile agli strani percorsi che facciamo in rete, dove di link in link saltiamo da una parte all’altra.
E’ un bene o un male? Non lo so. E’ un Cambiamento (la C maiuscola è voluta) straordinario del modo di formarsi e informarsi: dovremmo astenerci dal giudicare, perché è nei fatti e non riguarda solamente i nostri figli. Stiamo diventando così anche noi.
In tutte le teorie del consumo, recenti e meno recenti, si sottolinea la necessità di disegnare per l’utente un percorso facile, razionale, che si adatti alle sue esigenze, ma nel quale non vada perduta la coerenza del nostro prodotto. La mia sensazione è che il mondo dell’informazione, in questi anni convulsi di grande crisi di ricavi e di ribaltamenti di prospettive, non abbia disegnato percorsi su cui indirizzare i propri consumatori (lettori, ascoltatori etc), ma li abbia inseguiti lungo quelle che supponeva essere le strade che loro stavano battendo, perdendo la propria coerenza (il giornalismo è anche e soprattutto una missione civile) in favore di guadagni che sono arrivati solo di rado o per nulla. Una scelta fatua, che ha impoverito il dibattito pubblico e fatto perdere credibilità agli attori del settore, giornalisti o editori che fossero.
Parlo per linee generali, sapendo che ci sono splendide eccezioni sia da questo lato dell’Oceano che dall’altro e conoscendo molte persone che, all’interno di testate che hanno scelto la via più facile, hanno rappresentato la voce contraria. Ma quella che è mancata o c’è stata solo in parte è una riflessione sulle nuove modalità di consumo dell’informazione, su come sfruttarle per farsi leggere ANCHE su argomenti apparentemente noiosi, su come disegnare percorsi facili (che non vuol dire stupidi) perché i nostri utenti si informino, su come fornir loro – in questo mare magnum – un disegno generale che non risponda ad un’agenda politica o culturale e che abbia come unico scopo l’informazione.

Twitter, tempo di pulizia.


La costruzione di una timeline su Twitter è un processo che non si interrompe mai. La scelta di chi seguire o non seguire non procede in linea retta e spesso tiene conto solo parzialmente dei nostri veri interessi.

Sicuramente sarà successo a qualcuno anche con me: ha visto un mio tweet rilanciato da un’altra persona e quella prima impressione lo ha spinto a cliccare “segui”, ritenendo che mi occupassi essenzialmente dell’argomento del quale ho scritto o che un giornalista di Radio24 potesse essere una fonte di informazione, analisi o commento importante. Poi può aver scoperto che su Twitter mi piace anche fare qualche battuta, giocare, a volte parlare di me stesso e aver deciso, giustamente, che non vale la pena avermi in TL. Oppure che può passare sopra a tutto questo in forza degli altri contenuti che produco.

A volte succede che persone che seguivi esattamente perché producevano determinati contenuti abbiano smesso di farlo, oppure che nella costruzione di questa lista vi possano essere ragioni di “sentimento”: amici o colleghi che ti seguono e che senti di non poter fare a meno di seguire.

Tutto questo peggiora in maniera drastica la qualità dell’informazione e delle informazioni che ricevi, al netto del fatto che lo stesso Twitter, come media o social media o social network, abbia perso un pezzo della sua anima.

Insomma, tutto sta a seguire le persone giuste. E a differenza della vita, nella quale gli errori tendono ad accumularsi e cancellarli diventa piuttosto difficile, in rete si può azzerare tutto o cambiare radicalmente strada.

Dunque – e questo post è essenzialmente per gli amici con i quali ci seguiamo reciprocamente – è arrivato il tempo di fare pulizia. Ho bisogno di questo mezzo per il mio lavoro, per capire e imparare qualcosa di più, per avere punti di vista diversi. Ci sono cose che non mi servono. Su tutte

  • Parlamentari che tuittano che è #lavoltabuona o è #lavoltacattiva, che Renzi fa tutto bene o fa tutto male. Non me ne frega niente: non stanno producendo informazioni, ma fuffa propagandistica. Lo dico senza offesa: è parte del ruolo che hanno e lo comprendo benissimo. Ma non mi serve
  • Persone con posizioni preconcette che si rituittano a vicenda per darsi ragione. L’assenza di dialogo è la morte dei social.
  • Persone trolleggianti (spesso fanno parte della categoria precedente)
  • Persone che sprecano caratteri e spazio della mia TL per parlar male di altri.
  • Persone, spesso giornalisti, che hanno deciso che scrivere come farebbero per Crozza è meglio che scrivere come farebbero per il loro giornale. La battuta ci può stare e quando ha un senso (ossia ci fornisce un taglio di opinione/analisi) ci può stare ancora di più. In troppi esondano.
  • Persone che scrivono male.
  • Persone che scrivono di argomenti dei quali non me ne può fregare di meno.

Ci sono cose che mi servono. Su tutte

  • Informazione generalista
  • Informazione economica
  • Aggiornamenti su come evolve il lavoro di giornalista
  • Analisi economica e di esteri
  • Raramente analisi politica
  • Qualcosa per distrarmi: un filo di poesia ogni tanto, account che mi rilassano, un po’ di letteratura, qualcosa di storia

Seguo 1100 e passa tra persone e organizzazioni, stimo di poter dimezzare entro un tempo breve. E spero che questo mi porti, di riflesso, a migliorare la qualità dei contenuti che produco io stesso. Le mie scuse agli amici o conoscenti che non seguirò più, c’è sempre Facebook che è più adatto ed è più facile scriversi i messaggini.

 

 

A volte proprio non mi piaccio. Allora faccio un giro su Yahoo Answers


benito adolfoGATTOMANGIACADAVERIeltonjohntorturare animaliSTRETTO LA MANOVIPERAsboro
sperma inocchio

Misurazioni utili


A volte ho l’impressione che ci manchi una percezione delle distanze. Un po’ troppo abituati a vivere in pace, dimentichiamo quanto siano vicini i conflitti, quanto siano – per dirla con un’espressione abusata – alle porte di casa. Ecco un utile schema sulle distanze in linea d’aria

Roma – Kiev 1627 chilometri
Roma – Dublino 1880 chilometri
Roma – Lisbona 1867 chilometri
Roma – Stoccolma 1980 chilometri
Roma – Oslo 2010 chilometri
Roma – Donetsk 2090 chilometri
Roma – Kobane 2280 chilometri
Roma – Mosul 2700 chilometri

 

#totoquirinale, parte il sondaggione


Sono partite le Quirinarie. Continuate a partecipare sul Twitter con l’hashtag #totoquirinale. Aggiornerò costantemente

Il livello della speculazione politica si alza (o abbassa)


Gentile degli Astolfo

Il grande olio molisano

PROGRAMMATA

2000 anni di modi di dire "vota per me!"

La Valle del Siele

Appunti dalla frontiera. Agricoltura, mercato, scienze, sviluppo

lpado.blog

Un Blog francamente superfluo

Testi pensanti

Gli uomini sono nani che camminano sulle spalle dei giganti. E dunque, è giusto citare i giganti.

tutta colpa di Internet

sentimenti in Rete e connessi disastri

Insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

Mani bucate - Marco Cobianchi

IL LIBRO CON I NOMI DELLE IMPRESE CHE INCASSANO AIUTI PUBBLICI

@lemasabachthani

a trader's “cahier”

John Maynard

banche imprese persone

Mazzetta

Ce la possiamo fare

Nomfup

Only connect

Tutte cose

l'ironia è il sale della democrazia